Perdonerete la citazione, ma è il libro di Oriana Fallaci, “Saigon e così sia”, quello che viene in mente per primo quando si pensa alla città che proprio lì, in Vietnam, nessuno si vergogna di chiamare ancora in questo modo, con il nome di parecchi anni fa. Ho Chi Minh City (questa la denominazione attuale) vi accoglierà con un groviglio di strade senza nome, vie storte che un nome ce l’hanno, rumori che sovrastano altri rumori, smog, umidità, un traffico composto da dieci milioni (davvero!) di motorini che come un nugolo di insetti affollano la carreggiata, anche contromano. E qui arriviamo al primo problema: il caos. Difficile muoversi autonomamente (e per fortuna non affittano auto ai turisti), è un gioco pericoloso attraversare le strade anche a piedi. Vi abituerete mai a questo movimento continuo e in tutte le direzioni. Ma è il bello della città più grande del Vietnam, l’ex capitale del Sud, che non ha perso, nonostante tutto, lo spirito allegro, commerciale, colorato. E vanitoso.
La giornata inizia di fronte alla facciata della basilica di Notre-Dame di Saigon (Nhà thờ Đức Bà Sài Gòn), che domina la piazza-giardino dedicata a Parigi con due torri alte quasi sessanta metri. Se dovete ancora fare colazione, provate il Café De La Poste, un bar che si dà arie da bistrot francese e che serve mediocri croque monsieur proprio di fianco all’ufficio postale, che è il secondo edificio da visitare. Prima, la chiesa: il consiglio è di girarci intorno per rendersi conto della strana architettura e incontrare decine di ragazze vietnamite (a noi è capitata anche una sposa che si faceva truccare per terra) che scattano foto con lo sfondo di mattoni rossi e nient’altro. A loro piace da matti. La domenica mattina celebrano una messa in inglese per la comunità internazionale della città; se non è orario di celebrazioni, le porte sono chiuse.
Dicevamo, l’ufficio postale centrale (Bưu điện Trung tâm): entrarci al mattino è la scelta giusta per godersi il via vai; da sapere c’è che l’edificio in puro stile coloniale è stato progettato da Gustave Eiffel (sì, quello della Tour parigina) e che sulla facciata l’architetto ha voluto rendere omaggio ai protagonisti dell’innovazione mondiale, compreso l’italiano Alessandro Volta. All’interno, dipinti sui muri, troverete antiche mappe e un ritratto a tutta parete di Ho Chi Minh. Da qui, lasciando la basilica sulla destra e percorrendo Hàn Thuyên Street, vi troverete di fronte all’iconico Palazzo della Riunificazione (o Indipendenza, Dinh Độc Lập), bianco, geometrico e imponente. Non si può entrare dal famoso cancello distrutto da un carrarmato T54 dell’esercito nordvietnamita nel 1975, ma da lì poi si potrà uscire. Il biglietto si fa sulla sinistra, dove c’è anche un primo piccolo negozietto, e costa 40 mila đồng (ricordatevi che un dollaro sono circa 22 mila đồng). Siete in un luogo simbolo della guerra del Vietnam, visto che era il palazzo presidenziale; ci sono due carri armati in giardino e le stanze luminose ai piani alti si mostrano in tutto il loro sfarzo Anni 60, tra divani, biliardi e tavolini per giocare pure a dama; l’angolo più fotografato è l’eliporto con tanto di elicottero (un Uh1) che ricorda scene dei film di James Bond più che l’esercito “fantoccio” del sud. Vi potrebbe capitare di incrociare anche una sposa e invitati elegantissimi, perché al piano terra festeggiano i matrimoni. Son gusti.
Per il pranzo, riprendete la stessa via che avete imboccato per arrivare al Palazzo e fermatevi più o meno a metà, quando adocchierete pareti coloratissime, tavolini rotondi e camerieri sorridenti: eccovi al Propaganda, locale che colpisce per i murales che raffigurano i viet delle campagne, che ritroverete anche sui tovaglioli (che si possono comprare). Assaggiate i veri involtini primavera e magari il riso al pollo, bevendo una fresca birra Saigon Special (se non qui, dove?). Si mangia bene ed è un ristorante molto frequentato dagli occidentali.
Ora siete pronti per affrontare uno dei musei più importanti e impegnativi di Saigon, quello dei residuati bellici, il War Remnants Museum (Bảo tàng Chứng tích Chiến tranh, l’ingresso costa 15 mila đồng); avrete la possibilità di vedere la guerra dal punto di vista dei vietnamiti attraverso immagini anche molto crude, alcune scattate dai fotoreporter americani (tra cui, Capa) che si sono concentrati sugli eserciti, sui civili e sulle conseguenze devastanti dei combattimenti. Dopo il museo, ci vuole un bagno di spiritualità: prendete un taxi e dirigetevi verso la Pagoda dell’Imperatore di Giada (Emperor Jade Pagoda, Chùa Ngọc Hoàng – Chùa Phước Hải), tempio taoista del 1909 con un giardino che sembra una strada di periferia, sempre pieno di gente che porta offerte e prega; queste offerte possono essere anche piatti pieni di cibo, che poi vengono accatastati in tutti gli angoli; l’atmosfera per gli occidentali è surreale, fra forte odore di incenso, statue giganti sistemate, quasi “piegate” in spazi angusti, gente che dorme sulle brandine, bicchieri pieni o mezzi pieni di non si capisce cosa.
La giornata si può concludere così: cena da Nhà hàng Ngon – atmosfera orientale vera, lucine sugli alberi, gigantesca vasca-specchio su cui sembra galleggiare una pagoda – dove si possono assaggiare spiedini di gamberoni e riso all’aglio, poi dessert e cocktail sulla terrazza dell’hotel Majestic, lungo il fiume Saigon. Il bar è all’ultimo piano e alla sera c’è pure la musica dal vivo; la vista da lì è strepitosa. Per arrivarci, a piedi dal ristorante, passate davanti al municipio e salutate, ancora una volta, Ho Chi Minh.
Una curiosità storica su Saigon? Eccola qui: “Il cancello divelto, …“.
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