Per qualcuno questa città non è un posto qualunque, è un flash back di quelli che ti lasciano senza fiato e senza parole, che ti fanno osservare tutto con sguardo profondo, come se si riuscisse a vedere oltre l’immagine che hai di fronte. Ma anche chi la visita per la prima volta non riesce a fermarsi alla bellezza delle architetture ora ottomane, ora asburgiche, ora slanciate e protese verso la modernità. Si riesce comunque a cogliere il senso profondo di questa città, piantata in una vallata da cui cerca quasi di strabordare superando le colline di Vraca, di Vratnik o dilagando nella piana verso Ilidza, ma invano: alle colline che la circondano fanno seguito altre colline, e poi montagne, a perdita d’occhio. E così i suoi abitanti – siano “bosgnacchi” (cioè musulmani), serbi, croati o ebrei – ribollono da secoli in questo calderone dai bordi molto alti. La speranza è che il coperchio non si stanchi (di nuovo) di reggere.

Sistemarsi all’hotel Sana, nel cuore dell’antico quartiere turco della Baščaršija, è forse il modo migliore per immergersi subito nell’atmosfera di Sarajevo. Ed è comoda soluzione per raggiungere a piedi un gran numero di negozi, locali e ristoranti. Tanto vale iniziare la visita proprio da lì, con la seicentesca moschea di Gazi Husrev-beg, il caravanserraglio Morića Han, la fontana Sebilj (il simbolo della città), circondati da decine di souvenir shop (molti oggetti sono fatti a mano, bisogna cercare e soprattutto chiedere) e con venditori mai invadenti. Noi vi consigliamo di fare un salto da Hasim Asotić, in Kazandžiluk 27 (la via delle botteghe): con l’aiuto della figlia realizza oggetti inusuali, sono pezzi unici. E parla pure un po’ di italiano.

Da vedere ancora in questa parte di città almeno la cattedrale cattolica del Sacro Cuore (quella dove nel 1997 Giovanni Paolo II celebrò messa appena finito il conflitto) e il mercato Pijaca Markale, tristemente famoso per la bomba del 1994 che uccise quasi settanta persone – dove si trovano ancora tavoli e prodotti come si vendevano una volta e il classico disordine chiassoso. Camminate poi verso la Miljacka, il fiume color rame che attraversa la città, e soffermatevi a osservare forse l’edificio più noto: la biblioteca nazionale, quella bruciata dai serbi nel 1992 (vennero distrutti 2 milioni di libri), e ora riaperta anche al pubblico. Un altro dei luoghi simbolo della storia dei Balcani è il Ponte Latino: nel punto esatto in cui Gavrilo Princip sparò a Franz Ferdinand (l’erede al trono di Austria e Ungheria) c’era un monumento, oggi rimane solo una scritta su un pannello. Questo è l’episodio che scatenò la prima guerra mondiale. Di fronte, il piccolo museo racconta il periodo di dominazione e quello che successe quel fatidico 28 giugno 1914. Notate anche la bianca e possente Tsars, la moschea dell’Imperatore.

Provate i gusti arabi a pranzo: pita ripiene cotte nella cenere, come una volta, da Buregdžinica Asdž. Autentico e alla buona. Lo trovate in Bravadžiluk al civico 28. Fin qui, tutto facile. Ma per il caffè dovrete arrampicarvi per il quartiere Vratnic, raggiungere una strada che si chiama Zmajevac (in mezzo ai cimiteri) e il locale Vidikovac, quello con la vista migliore sulla città, perché da lì se ne capiscono davvero posizione e difficoltà (è in una valle, chiusa dalle colline, facile da assediare).

Per il pomeriggio segnatevi il Museo di Storia (è in Zmaja od Bosne, il viale dei Cecchini) dove troverete anche la ricostruzione della vita domestica durante l’assedio, tra pacchi viveri dell’Onu, taniche dell’acqua, stufe ricavate dai bidoni di metallo. Al piano terra, interessanti le foto del prima e dopo: i palazzi bombardati ora ricostruiti o ristrutturati messi a confronto. Prossima tappa, il tunnel, quello costruito dagli assediati di Sarajevo per collegare la città con l’esterno e riuscire a ricevere aiuti e far uscire i feriti; Tunel Spasa, questo il nome, si trova dietro l’aeroporto ed è ben segnalato. Troverete la casa che nascondeva l’ingresso, un negozio di souvenir e i primi venti metri originali del passaggio, che si possono percorrere ancora oggi. Sarajevo porta ancora i segni del conflitto: si trovano – soprattutto nei quartieri di Grbavica, Vraca e Novo Sarajevo – ancora palazzi mitragliati, i buchi lasciati dalle granate sui muri delle case, appartamenti distrutti. Ma gran parte del centro è stato ricostruito, aggiustato, “normalizzato”, grazie agli aiuti internazionali e alla voglia di ricominciare.

A cena, tornate nell’antico quartiere turco, ricco anche di ristoranti. Noi consigliamo il To be or not to be in Čizmedžiluk 5; all’interno, solo due tavoli e una cucina come la si può trovare nelle case di Goražde, la città da cui viene la cuoca Sada, signora ospitale e simpatica che se la cava con l’inglese ed è bravissima ai fornelli. Assaggiate la sua zuppa, poi assolutamente la carne. Notate la maestria con cui taglia funghi e pomodori, poi li butta in pentola, mentre vi racconta l’assedio e la ricostruzione. Il nome del ristorante (con “or not” barrato) riprende lo slogan del Sarajevo Winter Festival del 1994, in piena guerra.

“Per qualcuno questa città non è un posto qualunque, è un flash back di quelli che ti lasciano senza fiato e senza parole, che ti fanno osservare tutto con sguardo profondo, come se si riuscisse a vedere oltre l’immagine che hai di fronte. ”
Anche per chi, pur non essendoci stato, ha avuto qui amici negli anni in cui bombardavano i palazzi.
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