In Bosnia, a 25 anni dall’inizio della guerra. Il racconto di Hayt: quando a Mostar si era perso anche il diritto di piangere i propri morti.
Hayt sorseggia lentamente una birra con lo sguardo triste, poi si appoggia, quasi si siede, sul davanzale della finestra. Ha la camicia sgualcita, il sudore sulla fronte, i pantaloni da tirare su ogni tanto per tornare a essere in ordine. E davanti agli occhi un ponte che non è più il suo.

Al ristorante Babilon – tre terrazze a picco sulla Neretva, uno dei fiumi più importanti della Bosnia Erzegovina – ci sono gli ultimi clienti di una qualsiasi serata di metà giugno, estremi scampoli di primavera. Il ponte è quello di Mostar, il più fotografato di questo Paese spaccato dalle guerre, dall’odio e dalle religioni. Ma non è più l’originale. “È contento di riaverlo, integro?”. Hayt, così dice di chiamarsi, gira la testa, l’espressione è prima incredula, poi sprezzante: “A me di questo ponte frega niente – dice, in un inglese mollemente strascicato -. È business, serve per i turisti. L’hanno ricostruito, ok. Ma le persone non si possono ricostruire”. Il pugno nello stomaco arriva, la lampadina si accende: “Dov’era nel 1992?”. “In galera”.
Ed è così che Hayt inizia il suo racconto di guerra. Corto, perché far parlare chi ha vissuto quello che è il più recente conflitto dentro i confini dell’Europa è difficile, qui come a Sarajevo o Goražde. Sono ferite aperte, ogni domanda è come del sale buttato sopra.
“Non sapete cosa è successo qui? Ero in galera perché musulmano e vivevo dal lato sbagliato del fiume. Avevo 16 anni, ora ne ho 41”, ma ne dimostra almeno quindici di più. Non è portare bicchieri e piatti che l’ha reso così, segnato nel volto e nel fisico. Anche il portamento è da cinquantenne stanco, che ne ha passate troppe nella vita. “All’epoca i croati di Bosnia hanno messo in galera me e mio padre perché pregavamo nelle moschee e non nelle chiese, invece mio nonno è stato ucciso durante un bombardamento aereo serbo nella città in cui abitavo e abito di nuovo adesso. Non potevamo, però, seppellirlo nel cimitero musulmano. Si trovava dall’altra parte. Impossibile andarci”. E allora? “Allora la mia famiglia l’ha sepolto qui a ovest, in un parco tra le case”. Come tanti.
I militari della Nato che sono arrivati a Mostar vent’anni fa, raccontano di queste tombe improvvisate nei giardini e nelle aiuole. A segnalare chi lì era sepolto, lapidi costruite con pezzi di legno e pietra, scritte di getto e con dolore. Ancora adesso, se ne può vedere qualche decina tra le ville delle zone residenziali. Il punto in cui era sepolto il nonno di Hayt è Liska Park. Un cimitero abbozzato, assolutamente non recintato. Impressiona il luogo e anche il fatto che siano tutte tombe di persone che hanno una cosa in comune: sono morte nello stesso anno, il 1992.

Il racconto procede tra un caffè e un conto: “Dalla prigione mi hanno fatto uscire dopo aver firmato un foglio in cui mi impegnavo ad andare via dalla Bosnia. Sono stato in Turchia, da lì passato in Germania. Ho provato a venire in Italia, ma non avevo il documento giusto”. Tornato a guerra finita, ha trovato una situazione paradossale: “Non potevo andare a piangere mio nonno sulla sua tomba, perché Liska Park era dalla parte sbagliata del fiume, quella dove i musulmani non erano ammessi”. A febbraio del 1997, con un corteo organizzato e annunciato, quasi una processione, alcuni di loro hanno tentato di andare nel “cimitero” di Liska. I croati di Bosnia hanno sparato sulla folla, anche dalle finestre. Morti e feriti che non vuole contare. E non racconta oltre. Va subito al lieto fine: “Sono riuscito dopo qualche anno a spostare mio nonno. Ora riposa nel luogo dove voleva stare e io posso andare a trovarlo, a est”.
I tempi sono cambiati, l’odio negli occhi no. Hayt vive e lavora nel “west side” di Mostar, quello che gli era stato negato, quello dove era negato anche il diritto di piangere i propri morti.

Storia recente e brutta.
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Già. Difficile dimenticare, per tutti.
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